Padova, 15 novembre 2014 – Mons. Eugenio Ravignani, Vescovo di Trieste

Padova, 15 novembre 2014 – Mons. Eugenio Ravignani, Vescovo di Trieste

Omelia nella Basilica del Santo

Nel 70° anniversario della morte di Padre Placido Cortese, venne inaugurato a Padova, nella Basilica di Sant’Antonio, il «Memoriale» del Servo di Dio, che corrisponde al confessionale, nel quale egli, oltre ad esercitare il suo ministero di apprezzato confessore, riceveva dai suoi collaboratori (importante, al riguardo, la testimonianza di Lidia Martini) le informazioni sui perseguitati da mettere in salvo. Mons. Eugenio Ravignani, come Vescovo di Trieste, costituì nel 2002 il Tribunale ecclesiastico per l’inchiesta diocesana sulla «fama di martirio», poi cambiata in «fama di santità», che di fatto aprì la causa di beatificazione e di canonizzazione di Padre Placido Cortese. Il 15 novembre 2014, nel giorno ormai fissato per ricordare la morte di Padre Placido, Mons. Ravignani celebrò la S. Messa e benedisse il Memoriale, tracciando nell’omelia un suggestivo ricordo del nostro «martire».

Mons. Eugenio Ravignani e P. Enzo Poiana 

Padova – Basilica del Santo – 15 novembre 2014 – Mons. Eugenio Ravignani e il Rettore della Basilica P. Enzo Poiana accanto al Memoriale del Servo di Dio P. Placido Cortese

Al Rev.mo Padre Provinciale e ai suoi Frati,
a voi fratelli e sorelle carissimi,
rinnovo il saluto di pace e bene.

Ci riunisce oggi, in questa basilica, il ricordo riconoscente e commosso di Padre Placido Cortese.

Qui egli visse da autentico francescano in umiltà e obbedienza; qui nel suo ministero di penitenziere, a tutti fece conoscere la tenerezza dell’amore con cui sempre Dio accoglie e perdona; da questi chiostri si aprì al coraggio generoso della carità venendo incontro, anche a costo di gravi rischi, a coloro che, per ragioni politiche e non solo, i poteri di allora avevano confinato nei campi di internamento non lontano da questa città.

La parola di Dio, a noi offerta nelle letture proposte per la vigilia della domenica [Prov 3,10-13.19-20.30-31; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30], ci offrirà sentimenti e parole con cui dire al Signore la nostra ammirazione e la nostra gratitudine per i grandi doni con cui il suo Spirito ha arricchito questo umile frate.

Alle origini di una vocazione alla carità.

La pagina del libro dei Proverbi, oggi proclamata, sembra riportarci a Cherso, a quella “splendida isola che l’ulivo fe’ d’argento”, per conoscere la famiglia di Padre Placido. Una famiglia umile, non ricca certo ma dignitosa, in cui la profonda religiosità traspariva dalle parole e dagli atteggiamenti perché si viveva di fede e di preghiera, umile e sincera. Mamma e papà erano uniti in una comunione di amore che li rendeva sereni, i figli crescevano in confidente semplicità. Non c’era povero che bussasse alla porta di casa che non trovasse accoglienza, conforto ed aiuto. Come non pensare che a questa educazione alla carità si possa far risalire, come a fonte, la dedizione di Padre Placido ad una vita che nella carità ha avuto la sua più alta espressione?

Monumento a Padre Placido Cortese

Cherso – Monumento a Padre Placido Cortese

Una vocazione che si realizza nella vita francescana.

La pagina del Vangelo appena letta, nei talenti da spendere ci rivela i doni che Dio fa a ciascuno di noi. Accenno a quello che tra essi è il primo: è quello di dare ascolto e risposta a quella voce interiore che segnerà una scelta di vita.

Non vi è dubbio che l’ambiente familiare – come egli stesso avrebbe detto – sia stato determinante per una sua positiva risposta a quella che siamo abituati a definire “vocazione”. Lo afferma egli stesso, in una lettera ai genitori: “Voi avete fatto di me un piccolo uomo” (28 marzo 1923).

 

Ma è altrettanto indubbio che la significativa presenza dei frati conventuali e la spontanea consuetudine che ebbe da ragazzo con i frati a Cherso destarono in lui una forte attrattiva per quella vita che avrebbe condiviso un giorno con loro, in francescana letizia.

Con il nuovo superiore padre Benedetto [Peroni] al rispetto subentrò presto l’amicizia, mentre andava crescendo la familiarità con frate Egidio [Pittaro]. Questi, pur indaffarato nei tanti servizi, piaceva per la sua semplicità ed era esempio di preghiera. La sua, era una presenza desiderata ed amica da tutti i ragazzi, che in gita allegra o in pio pellegrinaggio passavano da una chiesa all’altra, magari giungendo fino alla Madonna di San Salvador. E qui mi è caro ricordare l’arcivescovo padre Vitale Bommarco, che, chersino pure lui e già ministro generale dell’Ordine, a quel santuario fino agli ultimi anni di vita, amava ritornare.

Il 4 ottobre 1928, con la professione solenne presso la tomba del Padre S. Francesco, padre Placido lega per sempre la sua vita all’ideale francescano di povertà: lo noterà qualcuno quant’era dimesso nel saio e negli abiti anche logori. Ma anche all’obbedienza, che lo portò in fraternità diverse: non è forse anch’essa una forma di radicale povertà perché si rinuncia a disporre di se stessi e ci si mette in mano ai superiori?

Divenne sacerdote il 6 luglio 1930 e il 13 successivo celebrò la sua prima Messa a Cherso. Purtroppo suo padre non aveva potuto vedere questo giorno di festa perché il Signore l’aveva chiamato a sé. Ma la sorella Nina poteva offrirgli, come egli aveva desiderato, ricamato dalle sue mani, il purificatoio, quel fazzoletto che egli, come ogni sacerdote, avrebbe usato per purificare il calice. A tenere la tradizionale predica per la solenne celebrazione fu padre Raffaele Radossi, chersino, che fu anche vescovo di Pola e arcivescovo di Spoleto, del quale ancor oggi è vivo il ricordo della sua carità: nei tempi del forzato esodo la sua presenza nei campi profughi istriani fu assidua e portò consolazione ed offrì luce di speranza.

Il rischio della carità senza timori.

Fu così anche per Padre placido, che nei terribili anni dell’occupazione tedesca e della tremenda sofferta realtà dei campi di internamento di croati e di sloveni di Chiesanuova, nelle vicinanze di Padova, ed altrove non ebbe alcuna esitazione di affrontare il rischio della carità. E non da solo. Ma dando vita ad una rete di persone generose che, da lui segretamente guidate e prendendo il coraggio da lui, non solo portavano aiuto agli internati, ma per molti organizzavano nascoste e difficili vie alla desiderata libertà. Ed era qui, al Santo, che egli incontrava e si faceva guida di coloro che a questa eccezionale storia di solidarietà offrivano intelligenza e coraggio.

E venne il giorno del suo arresto, domenica 8 ottobre 1944. L’aveva tradito un falso amico. Due uomini lo fecero uscire dal chiostro della basilica che godeva dell’extraterritorialità in quanto proprietà della Santa Sede. Usciti sulla piazza raggiunsero un vicolo non lontano, lo fecero salire su una macchina che raggiunse la sede della Gestapo in piazza Oberdan a Trieste, che di fatto con il nome di «Litorale adriatico» era sotto il dominio nazista. Nello scantinato dell’edificio, in condizioni disumane, padre Placido si trova a condividere la triste condizione degli altri prigionieri.

Raccogliamo con profondo rispetto la testimonianza di uno che fu accanto a lui nel bunker di piazza Oberdan: …“il Padre pregava, sempre, a mezza voce” … Ciò che lo colpì poi era la sua volontà, la sua fermezza e la fede del piccolo e fragile Padre, che non si arrese e non tradì nulla” (cf. Mušič, Testimone a Dachau, pp. 28-29).

“Padre Cortese era appena morto, sotto tortura, senza che fossero riusciti a fargli dire i nomi dei suoi collaboratori (Tottoli, p. 181). Da ragazzo aveva scritto: «La religione è un peso che non ci si stanca mai di portare, ma che sempre più innamora l’anima verso maggiori sacrifici… fino a morire tra i tormenti, come i martiri” (Ibid., p. 184). Il suo coraggioso sofferto silenzio, di cui ebbi diretta rivelazione da chi gli fu compagno nell’umida cella della Gestapo, lo fece martire della carità.

A Trieste, il 15 novembre 2003, ebbe conclusione il processo informativo per la causa di beatificazione sotto il titolo di martire. Con il superiore provinciale della provincia patavina e con l’arcivescovo padre Bommarco concordammo che la celebrazione conclusiva della fase diocesana avvenisse nella triste Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio nazista in Italia, dove si ritiene che anche il suo corpo, come quello di tante vittime della feroce barbarie (ebrei, cattolici e ortodossi, italiani, sloveni e croati) fu ridotto in cenere.

Alcuni superstiti ex deportati nei campi di concentramento e di sterminio hanno desiderato elevare a simbolo Padre Placido Cortese e porre in Risiera tre lapidi, in diverse lingue, a perenne memoria di lui e di tutte le vittime immolate “perché insegnino al mondo la pacifica convivenza dei popoli” (lettera dei promotori al card. Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi). Ancor oggi sia questa la nostra preghiera.

+ Eugenio Ravignani

Vescovo di Trieste

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